Scritto mercoledì 2 agosto
(segue dalla parte prima)
Di Locarno Festival (quest’anno si è adottata la dicitura sintetica, non più l’interminabile e ormai obsoleta Festival Internazionale del Film di Locarno) ne esistono due. O meglio, questo festival ha due anime. Che è sua peculiarità e insieme mistero, per me abbastanza insondabile. Perché c’è il festival dei cinefili duri e degli intemerati esploratori dell’ignoto filmico, un festival che si articola nel concorso, nella sezione seconda e più edgy Cineasti del Presente (il corrispettivo di Orizzonti a Venezia e Un Certain Regard a Cannes), in Signs od Life, dove si mostrano le zone intermedie, le ibridazioni tra cinema e altre forme visual-espressive come la videoart e la fotografia. E nella retrospettiva naturalmente (quest’anno, come già detto nel precedente post, dedicata a Jacques Tourneur). E poi, dall’altra parte, c’è Piazza Grande – 8000 posti a sedere come massima capienza, enorme schermo outdoor – sempre affollata nelle sue proiezioni serali (di solito una, qualche volta due), che è un altro festival, un festival a sé, il festival del pubblico, con il cinema meno malmostoso e più mainstream (senza esagerare) che attira migliaia e migliaia di paganti ogni volta. Con una programmazione radicalmente diversa e separata da quella del Concorso Internazionale, di Cineasti del presente ecc. Piazza Grande acquistò fama tra anni Ottanta e Novanta proiettando grandi film già passati altrove, e c’è ancora gente che con luccicore d’occhi nostalgico ricorda l’emozione di quella volta con Il cielo sopra Berlino di Wenders. Locarno è diventata Locarno anche così, con il suo schermo enorme all’aperto, “il più grande d’Europa”, come ricordano sempre gli organizzatori alimentando il mito. Con i suoi paganti affezionatissimi, soprattutto di lingua tdesca (seguono i francofoni e gli italofoni). Eppure, questo pezzo forte di festival non comunica con l’altro. Tant’è che nessun film del concorso viene proiettato in piazza, mai, nemmeno il vincitore del Pardo d’oro, il che è un bel paradosso (e sarebbe il caso di farlo vedere agli ottomila, no?). Da qualche anno mi sembra si sia rinunciato a importare massicciamente in piazza da altri festival film molto mediatizzati che garantivano il sold out. Percorrendo anche qui una strada meno facile e pop, quella delle prime mondiali o almeno europee o internazionali. Più scoperte, più azzardi, più rischi. Il publico sembra apprezzare, continua a comprare i biglietti, anche se qualche mugugno lo si intercetta (ho sentito un albergatore lamentarsi della scarsa presenza di star e glamour, cose che insomma attirino le folle e facciano girare il volano degli affari). Ma la vocazione di Locarno, non ce n’è, resta elitista ed esplorativa anche quando va in piazza. Con un cinema che esige attenzione. Intanto in Piazza Grande anche stavolta i titoli di un certo richiamo non mancano. Come la prima europea di Atomic Blonde, strano miscuglio di spy story alla John Le Carré e di modi disinvolti da action ipermoderno e di grafica violenza, con una Charlize Theron bella e tostissima, una guerriera. Da Cannes arriva solo un film, ma è bellissimo, la vera rivelazione della Sélection Officielle, ed è Good Time dei fratelli Safdie, convulso noir metropolitano con un meraviglioso Robert Pattinson. C’è The Big Sick, storia d’amore e di vita (storia vera) di un’americana e di un pakistano che è uno dei successi del momento del cinema indie Usa – ottimi incassi, ecellenti critiche – e tra i favoriti per la prossima stagione dei premi. Chi ha amato Il condominio dei cuori infranti potrà vedere in piazza il nuovo del suo regista Samuel Benchetrit Chien, con Vanessa Paradis (sua compagna nella vita) e Vincent Macaigne. Amori che non sanno stare al mondo (bel titolo) di Francesca Comencini è la presenza italiana. Mentre io son molto curioso di Laissez bronzer les cadavres del duo belga Hélène Cattet-Bruno Forzani, specialisti della rivisitazione scatenata ed esplosiva dei generi, già a Locarno in concorso qualche anno fa con l’omaggio all’italian giallo alla Dario Argento L’étrange couleur des larmes del ton corps (ma perché non stanno in concorso pure quest’anno?). Attesa per Fanny Ardant quale padre (algerino) diventato madre tipo Transparent in Lola Pater. Ardant quale transgender? Ma era proprio il caso? Con tutti i sex changer che ci stanno a disposizione dei registi? Mah. Storia di un figlio che dopo una vita ritrova papà, e lo ritrova donna. L’interesse non sta tanto in Fanny Ardant quanto nelle radici magrebine del regista Nadir Moknèche, e stiamo a vedere come la gender culture impatterà in un ambiente presumibilmente islamico, dunque non propriamente accogliente verso il genderless, come quello del film. Ma di sicuro Lola Pater farà il pieno.
Stasera si apre in piazza con il nuovo film di Noémie Lvovsky Demain et les autre jours, una donna separata e segnata dalla malattia mentale, e la figlia. C’è anche Mathieu Amalric, reduce da un Cannes trionfale (con Barbara, che ha diretto oltre che interpretato, ha vinto un premio a Un Certain Regard). Se vi ha appassionato la saga dell’uomo di Similaun, ecco l’austriaco Iceman, che ricostruisce fictionalizzando vita e lotta per la sopravvivenza sulle Alpi di cinquemila anni fa (i film provenienti dal bacino di lingua tedesca sono una presenza peculiare di Locarno). Ci saranno rare contaminazioni in Piazza con le alre sezione più edgy, ed ecco Ho camminato con uno zombie dalla retrospettiva Tourneur e Sicilia! (però tardi), uno dei vertici di Jean-Marie Straub, ultraottantenne signore del cinema ascetico e calvinista ma sempre in versione rossorivoluzionaria qui premiato alla carriera. Con naturalmente proiezione di quasi tutti i suoi lavori.
Gli ospiti famosi. Ecco, le superstar non camminano su questo (peraltro di modeste dimensioni) red carpet. A Locarno verranno variamente premiati (no, l’elenco dettagliato e noioissimo dei premi non lo faccio, tanto pur sotto varie diciture son tutti più o meno alla carriera) Todd Haynes, Mathieu Kassovitz, Adrien Brody, Nastassja Kinski. E Straub, per l’appunto. Ognuno con il suo pugno di film proiettati quale omaggio, sicché, tra gli intestizi delle sezioni maggiori, magari si riuscirà a inserire nella propria agenda qualcosa tipo i primi film di Haynes.
Altre sezioni, atri film. Nel fuori concorso – categoria sempre ambigua: spesso la casella in cui si ficcano cose altrimenti non catalogabili e classificabili – ecco uno degli eventi di Locarno 70. la riproposizione di un lavoro televisivo di Jean-Luc Godard (Godard!) del 1990 pochissimo visto allora e poi sparito, Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma. E da non perdere – l’han dato a Cannes ma non ce l’ho fatta a vederlo – un altro dei documentari di Barbet Schroeder sulle anime nere, Le vénérable W., e stavolta si tratta di un monaco buddista birmano diventato guida e punto di riferimento di tutti i buddisti fondamentalisti ansiosi di liberare il paese e ripulirlo etnoreligiosamente da ogni presenza altra, a partire dalla minoranza islamica. Importante, perché spezza uno degli stereotipi più consolidati in Occidente, l’equazione buddismo=pacifismo=non violenza. Ma il culto del Fuori concorso c’è già (ne ha parlato Carlo Chatrian in conf. stampa a Milano): il russo Nazidanie di Boris Yukhananov e Aleksandr Shein nel quale – riporto la sinossi perché non saprei dire altrimenti – “la famosa finale dei Mondiali del 2006 e gli eventi che hanno concorso ad essa vengono rappresentati sotto forma di spettacolo mistico. I registi trasformano Zinedine Zidane, Marco Materazzi, gli altri calciatori, gli allenatori, gli arbitri, i giornalisti, i commentatori sportivi e i due miliardi e mezzo di spettatori che hanno assistito alla partita in eroi di un racconto che viene diffuso come un messaggio per tutta l’umanità”. Pare c’entri pure una lettura cabalistica, e ho detto tutto. Io non vedo l’ora di vederlo. In fondo, ai festival si viene anche per questi pazzi incontri che altrimenti non faresti mai. Hors Compétition ci sono anche due italiani, Daniele Segre con Ibi e Alessandra Celesia con Anatomia del miracolo: acccensioni mistiche, culti mariano assai personali e customizzati in tre storie svolte dalla regista con approccio tra il partecipe-empatico e l’antropologico. Anzi tre italiani, perché bisogna aggiungere il corto Per una rosa di Marco Bellocchio, tutto girato nella sua Bobbio.
Pur frammentata e sparsa di qua e di là nelle varie sezioni e sottosezioni, insomma l’Italia non manca. Si dice un gran bene di Easy di Andrea Magnani, proiettato a Cineasti del presente, palestra e vetrina e laboratorio del cinema che verrà. Uscirà prossimamente anche in sala distribuito dall’udinese Tucker, vocata, come si sa, al cinema del vicino o lontanissimo Est: purché sia Oriente. Isidoro detto Easy è un ragazzo obeso solitario, triste e depresso. Finché suo fratello lo ripesca affidandogli uno strano incarico, portare una bara (con cadavere) in un villaggio ucraino. Si annuncia un promettente road movie, benché lo spunto somigli moltissimo a quello di un libro di Abraham Yehoshua diventato anche un film qualche anno fa, Il responsabile delle risorse umane. Cineasti del presente è roba cui devi affidarti a occhi chiusi, un blind date in versione cinema. Non sai cosa ti capiterà, possono essere delusioni e sorprese, gioie e dolori. Io cercherò di vederne il più possibile. Sembra notevole sulla carta Beach Rats, ragazzo di Brooklyn in cerca di incontri gay prima online poi live (un’altra tappa locarnese sul tragitto ‘crisi e smarrimenti del maschio contemporaneo’). E io che amo Istanbul non vorrei perdermi Distant Constellation di Shevaun Mizrahi: in una casa stambuliota par anziani varie storie si intersecano, e intorno la città che cambia. E non dite eccheppalle, lo vado a vedere io, mica voi, avrò pure il diritto di annoiarmi e soffrire.
Sono esausto. Ci sarebbe ancora una marea di roba imperdibile, inprescindibile da segnalare, ma come si fa? Non c la faccio più, ecco. Dico solo altri due titoli, entrambi in Signs of Life: Tara Moarta di uno dei grandi del cinema rumeno, Radu Jude, che attraverso un diario e alcune fotografie ritrovate ricostruisce l’antisemitismo rampante negli anni Trenta nel suo paese, e Surbiles del sardo Giovanni Columbu, su stregonerie e visioni e allucinazione in una Sardegna che è oggi, ma anche ieri e domani, fuori e oltre il tempo. Columbu viene da un film bello e sottovalutato, Su Re, dato qualche anno fa in concorso al Torino Film Festival e poi rimosso da tutti, pubblico e recensori. Spero si rifaccia qui a Locarno.
↧
Festival! Locarno 70: si comincia (parte seconda)
↧